Entrati nella così detta terza fase dei processi di globalizzazione sono le aree territoriali omogenee che hanno preso il ruolo di vettori di cambiamento capace di riequilibrare ed innovare i processi di appiattimento di una globalizzazione asettica. Il territorio deve essere inteso oltre la mera geografia, incardinandosi nel concetto di un ecosistema complesso che determina il proprio capitale territoriale, come dialogo tra il capitale di appartenenza e le potenzialità di crescita
In questa prospettiva il teatro ha giocato un ruolo fondamentale. Il teatro è per dimensione local e per vocazione global perché nell’odierna cartografia del mercato culturale globale è stato capace di orientarsi nella sempre maggiore flessibilità che viene richiesta ed allo stesso tempo a sedimentare radici orizzontali grazie al suo capitale relazionale.
Non tutto il teatro è, però, stato capace di questo. Quel teatro che riproducendo modelli antichi pensando di poter infondere dall’alto un magico sapere e relativa attrattività, quel teatro che è si arrocca in una difesa di una poetica senza farsi permeare dalla specificità dei territori in cui vive, quel teatro che non è capace di esprimere posizioni critiche e mai assolute, quel teatro che non esercita il rispetto del principio della “differenza”, quel teatro sta correndo ad occhi chiusi verso il precipizio della sua estinzione. Ed allora sarà il caso -se pur con rammarico- di lasciarlo saltare. Perché il teatro non si è estinto in quel salto, il teatro si sta trasformando e vive altrove.
Esiste, infatti, un teatro capace di dialogare col territorio e allo stesso tempo di connettersi con un ecosistema internazionale diventando un nodo di relazione che condivide, traduce e proietta le esperienze territoriali in una prospettiva più ampia. Non si tratta più di costruire avamposti né di presidi culturali ma di snodi in continua relazione come in una sorta di cloud non virtuale, dove tutti i punti condividono il proprio sapere ed allo stesso tempo conservano quello degli altri. Bisogna dunque scendere di scala e ricominciare dalle mappe locali, visto che il rapporto del teatro con le comunità più piccole è il fondamento della sua stessa sopravvivenza.
La forma che è emersa per gestire questa trasformazione del teatro in maniera del tutto causale -come sempre accade nei migliori processi di generazione- è stata quella della Residenza. Ma cosa ne è rimasto di quel sogno dopo che le istituzioni hanno tentato di darle una collocazione nel panorama nazionale? Brandelli che non rispecchiano più alcuna delle sue premesse: la flessibilità, la resilienza, la sua missione nel riportare il pubblico alla visione del contemporaneo. E’ stato forzato l’aspetto dell’incubazione delle nuove generazioni, di favorire l’internazionalizzazione, e perfino di ospitalità delle produzioni emergenti. Gli sono state affibbiate mille funzioni di cui il sistema istituzionale è debole e più le funzioni sono cresciute più questo a richiesto strutture complesse incapaci di avere un rapporto col territorio genuino, diretto continuativo. Di quel sogno è rimasto poco e le Residenze attuali per la maggior parte svettano come grattaceli vuoti dove passano artisti ben remunerati (cosa positiva!) senza alcun rapporto col territorio. Non per questo le realtà che operavano come residenza originali si son estinte. Vivono, lavorano e creano.
Ora tocca alle istituzioni tutte rendersi conto del cambiamento e di immaginare delle policy culturali che ritornino a dare spazio e riconoscimento alle residenze così come erano nelle sue origini e che le riconoscono quei luoghi come eccezioni culturali che non debbano subire l’appiattimento di una normatività forzata.
“Nella geografia politica teatrale, soltanto una legge vale per tutto il periodo e tutto il teatro: al solito una regola dell’eccezione, come vuole il controsenso e il fuoriluogo della cultura e della natura teatrale”.