Abitare nudi
di Residenza Idra – Brescia
Siamo nati negli anni ‘90 e cresciuti nel 2000, nel caos e nel disorientamento, immersi nelle temperie politiche ed ontologiche che hanno provocato una sconcertante dissipazione dei rapporti interpersonali e lo sfaldamento delle istituzioni. Siamo in un interregno senza orizzonti valoriali. Potrebbe sembrare reazionario il nostro percorso ma tenendo ben a mente il contesto, la prospettiva cambia. In contrasto con quello che ci succedeva e senza ben comprenderlo, la nostra prima reazione è stata quella di gettare radici più profonde possibili, capaci di resistere alla tempesta; la prima nostra azione quella di ABITARE un luogo, per costruire un’identità.
“Grazie alla casa il soggetto esce dal flusso caotico della vita, prende le distanze dalle urgenze e dai pericoli e si concede un tempo e uno spazio per sé“. Silvano Petrosino
La casa prediletta è un teatrino di periferia in uno dei quartieri malfamati di Brescia perché crediamo fortemente nella funzione sociale del teatro: il teatro come motore di un cambiamento. Primi passi sono naturalmente quelli di cercare di creare buoni rapporti col vicinato ed in particolare: col circolo anziani attiguo al teatro il quale respingendo il nostro cestino di leccornie ci fa capire a male parole che noi siamo usurpatori del loro spazio in particolare del “sacro” bagno; con la biblioteca che ci esprime tutto il suo disappunto per quegli strani rumori provenienti dal teatro; dai “tossici” che devono spostare lo spaccio pochi metri più avanti dall’androne del teatro; dal prete che non apprezza le nostre troppo ampie vedute sui temi sociali. Ma nelle nostre giovani teste echeggiavano ancora le lezioni universitarie: l’etimologia propria del termine abitare si riferisce ad “aver consuetudine in un luogo”, non è quindi solo uno stare, un essere chiusi all’interno delle mura domestiche, ma un aver consuetudine con i luoghi, uno stare nel tempo con le persone. Quindi la nostra missione non poteva consumarsi nel teatro tra quattro amici ma doveva strabordare dalle mura andando ad interessare la cittadinanza tutta. Innumerevoli laboratori, spettacoli, premi…una serie infinita di fallimenti. Dopo tre anni di battaglie è il luogo stesso ad espellerci come oggetto indesiderato: il teatro chiude per inagibilità. Usciamo amareggiati, senza alcun bagaglio apparente e soprattutto delusi dalle istituzioni ree di una troppo silenziosa assenza.
La delusione bruciava e portava domande che resero utile questo fallimento: forse il teatro non è un motore di cambiamento? O siamo noi incapaci? E quale identità abbiamo creato? Quali radici gettato?
Torniamo indietro. Ripartiamo. Decidiamo di affittare uno spazio privato a nostre spese e farlo diventare un nostro fortino allontanando le istituzioni ma aprendolo anche promiscuamente agli artisti. La nuova casa, infatti, è uno spazio industriale ricavato in un palazzo chic nel centro di Brescia. La casa è stata veramente un fortino impenetrabile per alcuni anni ed ha consentito di acquisire alcuni valori che son diventati la nostra bandiera. Ci siamo infischiati delle normative allestendo una doccia necessaria di fronte agli uffici ed avendo il piacere di incrociare tutte le mattine attori e danzatori in abiti discinti, mangiando nell’unica stanza di accoglienza per tutti, condividendo momenti di ozio, facendo shopping nelle discariche dismesse della città per allestire le scene degli spettacoli. La casa con le sue mura ci aveva offerto riparo per le necessità basilari del nostro esistere (nutrirsi, riposarsi, creare), attività in cui tutti noi diventiamo fragili, vulnerabili. In questo senso la nostra casa era diventa luogo della nudità: in essa ci siamo messi a nudo perché non avevamo più bisogno di difenderci e potevamo costruire veramente una comunità di artisti dove si poteva essere autenticamente se stessi. Si trattava, quindi, di una nudità necessaria per la creazione che ha consentito in molti casi anche un’innovazione estetica e nei linguaggi degli artisti ospitati. Il primo spettacolo che aprivamo al pubblico ne era testimonianza: pur avendo una forte connotazione estetica si differenziava molto dai canoni degli spettacoli di successo, avendo come obiettivo fondamentale un dialogo forte ed essenziale col pubblico. Il pubblico anzi aveva un ruolo attivo nello spettacolo: si trovava suo malgrado partecipe dei nodi drammaturgici principali. Innumerevoli aneddoti seguono lo spettacolo che fa un numero inconsueto di repliche in otto paesi europei per sei anni: dal ragazzo che frantuma veramente il suo cellullare piuttosto che sacrificare uno dei personaggi della storia, alla polizia israeliana che censura alcune parti ritenute non consone per il “pacifico rapporto tra arabi ed israeliani”, ad una sonora scenata di gelosia di un giovane amante a Napoli. Per quegli anni in cui gli artisti avevano vissuto nel solipsismo dei linguaggi post-moderni, relegando lo spettatore ad una defilata posizione di voyeur anche poco ben voluto, lo spettacolo costituiva una vera rottura.
La casa non è solo uno stare ma anzitutto un esserci (come ricorda Heidegger) ed il nostro esserci era riuscito ad entrare in sintonia con la nuova generazione: paradossalmente l’esserci chiusi in un fortino aveva dato la possibilità di mettersi a nudo, di conoscerci meglio, focalizzare i nostri obiettivi, creare un insieme di valori. Nel momento in cui ci siamo aperti sono entranti facilmente in sintonia con tutti coloro che li condividevano: il rispetto delle differenze, il supporto alla creazione artistica in particolare degli artisti emergenti, l’innovazione dei linguaggi finalizzati ad una maggiore efficacia comunicativa verso lo spettatore. E quando parliamo di nudità non è solo quella metaforica. Spesso e volentieri ha corrisposto con momenti salienti della nostra esistenza. Non possiamo dimenticare le denunce dei vicini del “palazzo chic” perché gli attori in residenza si mostravano in mutande in cortile, o di numerosi spettacoli in cui gli attori usavano la nudità come provocazione – uno tra tutti Mdlsx dei Motus in cui l’attrice sfruttava la sua androginia per una toccante riflessione sulla sessualità. Una performance che ha fatto palpitare per la prima volta nel nostro teatro un pubblico realmente eterogeneo e trasversale, dal ragazzino sedicenne che si aspettava scintille di provocazione, alla signora ultra ottantenne incuriosita da tanto clamore in città.
Quando la signora Gisella, intraprendente nonnina dirimpettaia, incominciò a condividere le pietanze della sua lauta cena con noi, capimmo che la situazione era maturata. Avevamo fatto breccia. Eravamo pronti a schiudere il guscio. Aprire l’uscio di casa agli sconosciuti non è stato né facile né immediato ma è avvenuto nel tempo ed è stata una sperimentazione ricca di fallimenti, errori e gioie guidata sempre dal principio di condivisione e di arricchimento reciproco. Una storia fatta di pc rubati, soldi rubati, macchine fotografiche rubate, ma anche un intero libro di ringraziamenti e dediche, professionalità acquisite e storie di fiducia conquistata. La nostra casa è diventata col tempo non uno spazio statico, ma un luogo di relazioni, di equilibri tra interno ed esterno, tra bisogni e desideri. Lo sono i progetti che ne sono scaturiti. Tra tutti Intimate Bridges: una piattaforma attraverso cui i bresciani possono ospitare gratuitamente nelle loro case degli spettacoli realizzati da ragazzi extracomunitari di seconda generazione. L’iniziale difficoltà ci ha messo alla prova perché dimostrava in fondo la reciproca diffidenza di uno e dell’altro gruppo dei soggetti coinvolti ma la nostra testardaggine è riuscita oggi a far si che la richiesta di repliche sia molto maggiore della disponibilità. Ha vinto l’idea che solo attraverso l’intimità di una casa si possa discutere fuori dai pregiudizi e dagli stereotipi dei veri problemi legati alla migrazione e all’integrazione. Come scrive Nino Dolfo sul Corriere della Sera recensendo il lavoro: “Ogni vera esperienza di cultura non avviene in un terreno bonificato dalle sofferenze, dalle contraddizioni del mondo perché la cultura non è un posto caldo ed al sicuro, è uno spazio di confine di confronto con l’altro diverso da noi. Intimate Bridges si apre come una epifania su altri mondi”. Ha vinto il sorriso disarmante di questi ragazzi, ha vinto il senso di comunità che tutti noi abbiamo anche se un po’ sopito.
A questo punto abbiamo capito che il nostro senso di casa si poteva estendere ad una azione di cura non solo personale ma anche della vita sociale cittadina e abbiamo capito che lo spazio non era più sufficiente alle necessità. Siamo entrati in un nuovo luogo: MO.CA – spazio delle culture, con l’idea di prenderci cura anche della vita sociale e culturale cittadina e di proiettare gli artisti ospitati e prodotti in una dimensione nazionale ed internazionale, di costruire cioè un ponte tra la creazione e la sua fruizione.
Siamo pronti ora per un altro salto: CASAdocleCASA. Ancora una volta la casa al centro della nostra riflessione. Lavorando in un’ottica di coesione sociale che intende andare oltre la categorizzazione delle fasce a rischio come “immigrati” o “poveri” o “anziani” riteniamo che tutte queste persone siano in realtà accomunate dalla condizione di solitudine, o isolamento e dalla mancanza di una “casa”, dove per casa non vogliamo intendere solo il concetto di abitazione ma anche e soprattutto quello di comunità. Abbiamo dunque individuato alcuni dei luoghi del territorio cittadino in cui questa tematica risulta essere particolarmente sentita: una casa di riposo, un dormitorio per senza tetto, un centro di accoglienza per richiedenti asilo. Il progetto intende lavorare in questi luoghi sul tema della casa, elemento e simbolo forte che accomuna i beneficiari che, pur nella loro specificità, vivono tutti il trauma della solitudine e dell’allontanamento dalla propria casa, intesa come abitazione, terra d’origine, cerchia di affetti, in definitiva, come comunità, utilizzando questo elemento comune come veicolo per una conoscenza reciproca e un’apertura verso l’esterno.
Nonostante la scelta di abitare lo spazio pubblico non abbiamo perso l’amore per la “nudità” anche se non è facile togliersi le maschere che il teatro ti crea, anche se le istituzioni si sconvolgono della nudità, anche se gli artisti non vorrebbero essere così intimamente coinvolti dalla nostra azione. Ma la nostra “nudità” è stata come un passe-partout che ci ha permesso di entrare in contatto con realtà molte diverse tra loro in maniera trasversale, andando ben oltre i limiti del settore culturale. Piano piano ci stiamo accorgendo che la tempesta intorno a noi non è né diminuita né attenuta anzi è sempre più forte ed ha finito per spazzare via le poche certezze che avevamo. Eppure, abbiamo capito che resistere a tale tempesta è inutile né però ci si può adeguare a tale depauperamento, a tale commercializzazione dei rapporti umani. Abbiamo capito che le radici che tengono ferma la nostra casa non sono profonde come avevamo ipotizzato quindici anni fa ma sono orizzontali. Sono tutti quei rapporti complessi di scambio, di arricchimento, di contrasto, costruiti nel tempo con l’intera società civile.
“La chiave di un uomo si trova negli altri: è il contatto con il prossimo quello che ci illumina su noi stessi.” Paul Claudel